Ci sono persone che non temono di mettere a nudo la propria anima.
Rare, ma ci sono.
In un mondo in cui la maschera conta più del volto, il candore di Raffaella Calcagnini può apparire anacronistico, persino controproducente. Ma il personaggio è autentico; ha scelto di peregrinare per i sentieri del cielo piuttosto che correre sulle autostrade illusorie della terra.
Di qui un transito obbligato che la porta a esprimersi attraverso un linguaggio lirico in una modalità pittorica fresca, decisamente originale, svincolata da maniere e suggerimenti dell’arte militante. Ne va sottolineata anzitutto la sincerità scoperta, l’urgenza di comunicare stati d’animo, intenzioni, turbamenti, per via diretta, senza infingimenti, in una sorta di ricerca di universo perduto, di valori assoluti.
Trapela il desiderio di rintracciare la casa originaria, il bene lasciato, perduto nell’oblìo della coscienza, ma che si ha certezza esistere nelle altezze della surrealtà, il cui eco riverbera potente nel pozzo degli archetipi. Gli occhi e il pensiero di Raffaella sono rivolti al cielo, alla grande opera in perenne cambiamento, ai suoi azzurri, bianchi, grigi e neri notturni; alle sue presenze, fatte e disfatte, in fugaci provvisorie visioni. Ma le emozioni, tanto più profonde esse siano, appartengono a quel mondo interno e scuro dal quale, consapevole o no, la pittrice attinge. Per cui il suo non è un fare radioso, solare, ma piuttosto qualcosa di enigmatico, frutto del compromesso tra ombra e luce, tra speranza e disperazione.
Pittura malinconica e lunare, tenera e dolente come un’icona virginale. La libera espressività del suo fare non conosce il confine tra astratto e figurativo e non per scelta dotta, ma per la connaturata consapevolezza del “continuum” che lega ogni cosa all’altra, in un pleroma senza inizio né fine. Perciò la coerenza non ne soffre. Né potrebbe essere altrimenti, almeno finché il modello di indagine e di ispirazione totalizzante, in cui trasferire l’emotività, resterà per lei quell’immenso oggetto che ci sovrasta, mutevole e mai ripetibile, ma unico, senza interruzioni, infinito.
Arianna Piermattei, critico d’arte